Cos’è un disturbo alimentare e come riconoscerlo

In questo articolo voglio aiutarti a fare un po’ di chiarezza su un argomento molto vasto e spesso poco conosciuto o affrontato in maniera frettolosa.
I disturbi alimentari sono, anzitutto, quelle forme di disagio fisico e psicologico che coinvolgono il nostro rapporto con il cibo. Partendo dal fatto che l’idea di “rapporto sano con il cibo” non sia così chiara nel momento in cui pensiamo che le nostre usanze in materia di cibo siano poco consone rispetto allo stile di vita dell’attuale cultura occidentale, è facile pensare che un disturbo alimentare possa celarsi dietro buona parte delle abitudini contemporanee.
Cercherò quindi di stringere il campo intorno all’argomento cercando una linea di demarcazione tra patologico e non patologico. Vedremo successivamente come il cibo possa avere una funzione a livello psicologico analizzandone quindi la portata simbolica più che quella prettamente utile alla nostra sopravvivenza. Infine, proverò a illustrarti cosa significhi prendersi cura di un disturbo alimentare al netto della loro complessità.

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INDICE
1. Cos’è un disturbo alimentare
1.1 Cibo e cultura
1.2 Riconoscere un disturbo alimentare
2. Come dare un senso ai disturbi alimentari: la valenza simbolica del cibo
3. Una cura per i disturbi alimentari

 

1. Cos’è un disturbo alimentare

Che cos’è un disturbo alimentare? Intendiamo quadri clinici che riguardano il modo in cui ci rapportiamo al cibo. Escludiamo quindi tutto ciò che riguarda l’effetto che il cibo provoca su di noi da un punto di vista biologico e nutrizionale. Per esempio, condizioni di diabete, intolleranze alimentari, allergie, sono disturbi che interessano gli effetti che il cibo ha sul nostro organismo e non tanto come noi viviamo il cibo.
Può diventare patologico il modo in cui vivo il senso della fame, della sazietà, ma anche il ruolo che il cibo ha a livello conviviale o il modo in cui esso influenza il peso e la corporeità.

1.1 Cibo e cultura

Ogni cultura è più o meno convinta che le proprie abitudini alimentari siano connaturate e assolutamente normali.
In realtà il cibo, assieme ad ogni pratica umana, si inserisce a pieno titolo in un orizzonte culturale preciso. La cosiddetta “dieta mediterranea” è frutto dell’accumularsi dei secoli che hanno visto civiltà sorgere, trasformarsi, comunicare, combattere. Ne sono nati usi e costumi o, in altre parole, abitudini.
Tuttavia, ciò che è successo negli ultimi decenni, specialmente a partire dal secondo dopoguerra, è un fenomeno piuttosto curioso: pur essendo cambiata in maniera radicale la società rispetto, ad esempio, agli anni 50, le nostre abitudini alimentari si sono mantenute piuttosto stabili e inalterate al netto degli enormi cambiamenti nel nostro stile di vita.
Nella maggior parte dei paesi d’Italia è normale scandire tre pasti durante la giornata (se non di più), consumando abbondanti e gustose porzioni. In molte aree, cenare ben oltre dopo il tramonto è usanza. La convivialità di pranzi e cene tra amici, familiari o colleghi prevede quasi sempre il consumo di cibi appetitosi, particolari, abbondanti. Certamente non necessari. Un nutrizionista un po’ troppo pragmatico potrebbe tranquillamente dire che, stando allo stile di vita contemporaneo, la nostra cultura alimentare è in buona parte patologica. In realtà non è proprio così. Ascoltiamo i consigli degli esperti e in fondo siamo ben consapevoli che molto di ciò che mangiamo non ci serve, ma questa non è una motivazione sufficiente per farci cambiare abitudini.

1.2 Riconoscere un disturbo alimentare

Per riconoscere un disturbo alimentare dobbiamo muovere i nostri passi a partire da una cultura che certamente non si può definire così ideale. Proviamo a tracciare la linea di cui ti parlavo a inizio articolo: un disturbo alimentare è tale non solo perché il nostro rapporto con il cibo genera conseguenze negative sul piano della salute, quanto perché il cibo diventa, in un certo momento della nostra vita, centrale rispetto alla nostra identità e al nostro modo di essere.
La centralità di un tema, vissuto in maniera disturbata poiché genera evidente sofferenza, è ciò che ci permette di distinguere tra un rapporto non ottimale con il cibo (quando non addirittura insalubre e patologico, come nel caso del cosiddetto junk food consumato in quantità abbondanti) da un disturbo alimentare vero e proprio.
A livello diagnostico voglio indicarti quelli che sono i tre principali disturbi alimentari, più noti e meglio studiati. Questi tre esempi ti daranno un’idea di come il fenomeno sia talmente complesso da generare categorie molto diverse tra loro.
Il DSM 5 fa distinzione tra:
Anoressia nervosa: Si caratterizza da un rapporto di restrizione talvolta radicale con il cibo. L’assunzione delle calorie è meticolosamente controllata e il peso si mantiene molto basso, al di sotto di un sano indice di BMI. Vi è paura di ingrassare e tentativi di mantenere il controllo sul peso. Il corpo, dal canto suo, è visto come perennemente esposto al rischio di accumulo di peso. Sebbene gli altri dicano alla persona con anoressia che non solo non vedono ciò che vede lei ma anzi l’esatto opposto, questo disturbo è tale da risultare poco comprensibile se non si prova ad entrare in merito a cosa il peso significhi per quella persona mantenere un ferreo controllo su di sé.
Bulimia nervosa: SI caratterizza da abbuffate a cui conseguono, il più delle volte, condotte compensatorie (ad esempio il vomito). Una persona si abbuffa quando ingerisce grandi quantità di cibo, ben al di là del proprio fabbisogno e incongrue rispetto alla sensazione di fame. Il ciclo abbuffata-condotta compensatoria caratterizza la bulimia e porta la persona a sentirsi intrappolata rispetto a qualcosa che è difficile controllare e che genera spesso senso di colpa, fallimento, inutilità, vuoto.
Binge eating disorder: Si caratterizza da abbuffate almeno una volta alla settimana per tre mesi. A differenza della bulimia non vengono messe in atto condotte compensatorie. Il BED può sfociare in condizioni di obesità più o meno importante. La persona, durante l’abbuffata, perde il controllo mangiando ingenti quantità di cibo.

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2. Come dare un senso ai disturbi alimentari: la valenza simbolica del cibo

Se a livello descrittivo i principali manuali di psicopatologia ci forniscono quadri clinici piuttosto dettagliati, rispondere alla domanda “che cos’è un disturbo alimentare” resta un’argomentazione più complessa.
Soffermarsi ad una prospettiva razionalista rischierebbe di farci vedere questi fenomeni come un problema legato alla sfera del controllo, dell’impulsività, della mancata consapevolezza delle conseguenze che tutto questo comporta. Nessuno vuole sminuire l’importanza di questi fattori, il problema è che in questo modo è come se rimanessimo sulla soglia di un mondo ben più vasto e profondo.
Se assumiamo che il cibo è una pratica umana come tutte le altre, e che ogni pratica umana non ha solo una funzione evoluzionistica ma anche simbolico-culturale, è da qui che è necessario procedere per comprendere il fenomeno.
In una prospettiva fenomenologico-dinamica, il cibo può assumere svariate funzioni a seconda delle caratteristiche del mondo della vita del paziente.
Nel caso dell’anoressia il controllo sul peso non è semplicemente una questione di “errata percezione” o di “distorsioni cognitive” (che semmai sarebbero un aspetto conseguente). Piuttosto, è una condizione necessaria per il mantenimento della propria identità. Il corpo emaciato fino quasi alla tortura non è semplicemente il modo in cui vogliamo apparire, ma è ciò che può permetterci di continuare ad essere noi stessi. Questo corpo prova strenuamente a tenere in scacco il tempo e ciò che esso porta con sé: cambiamenti, maturità affettiva e sessuale. Il corpo anoressico blocca il naturale flusso della vita e, insieme, tutti coloro che vorrebbero che noi ne facessimo parte. Il corpo magrissimo tiene fuori dalla porta l’abbondanza, la sessualità, lo sguardo, il desiderio.
Nel caso della bulimia l’ago della bilancia è spostato invece sulla perdita del controllo. Il cibo assume un ruolo di anestetico o (senza che vi sia contraddizione) possibilità di tornare a “sentirci”. Il corpo in preda all’abbuffata spegne sensazioni dolorose e ci permette di sentirci, almeno in un primo momento, in una condizione di estasi, lontani dalle preoccupazioni che fino ad un momento prima ci affliggevano. Salvo poi trovarci in un secondo momento a dover sostenere il peso di azioni che ci portano a sentirci tremendamente in colpa. Il corpo pieno è un corpo che, per un breve lasso di tempo, dimentica sé stesso e il mondo, cerca conforto da una condizione insopportabile. L’impulso alle condotte compensatorie lo riporta al mondo, e quei pensieri così dolorosi diventano ancora più crudeli.
Questi esempi sono indicativi di cosa voglia dire provare a reinserire il cibo in una cornice simbolica di senso e sarebbe un grave errore leggerli come delle spiegazioni tout court dei fenomeni in questione. E’ importante invece che ti sia chiaro il fatto che senza una cornice di senso i disturbi alimentari rischiano di rimanere in una zona misteriosa.
Come spesso sostenuto su questo sito, senza la comprensione del mondo della vita dell’Altro, ogni fenomeno psichico rischia di essere ricondotto ad altro, cause esterne, fenomeni meramente biologici, meccanismi mentali più o meno “distorti” o, peggio di tutto, al venir meno del “buon” senso comune.

3. Una cura per i disturbi alimentari

Abbiamo visto che cos’è un disturbo alimentare da un punto di vista descrittivo e simbolico. Entriamo ora in merito alla questione inerente la cura.
Curare un disturbo alimentare significa prendersi cura della persona nella sua peculiarità, chiedendole di aiutarci ad esplorare la rete di significati in cui il cibo assume un senso. Nel mondo della vita del paziente, come insegna la fenomenologia clinica, anche le cose più concrete prendono vita.
Curare un disturbo alimentare significa revitalizzare il sintomo, riconducendolo alla fonte da cui origina. Il cibo assume una valenza simbolica che ci aiuta a comprenderne la funzione e, quindi, a gettare una luce su una serie di comportamenti che altrimenti resterebbero poco leggibili.
Se si prende per buono ciò che ho scritto più sopra, si capirà anche che il paziente è arrivato al proprio disturbo alimentare come conquista (patologica) grazie alla quale è riuscito ad affrontare altri dolori che diversamente lo avrebbero tormentato. Sto dicendo che il corpo denutrito dell’anoressia nervosa è la migliore strada che il paziente ha trovato per fare fronte ad una condizione di sofferenza altrimenti non “dicibile”? Proprio così. Ogni sintomo, anche i più estremi, non sono la manifestazione di un mero masochismo di persone che si vorrebbero “poco bene”, ma veri e propri linguaggi con cui taluni stanno provando a parlare di sé e di ciò che gli accade.
Curare un disturbo alimentare significa incontrare il paziente nel bisogno che tale disturbo assolve, senza quindi la pretesa di “cancellarlo”, ma proponendogli di provare a percorrere altre strade.

Riferimenti bibliografici

Aragona, M.; Spitoni, G.F. (2019) – Manuale dei disturbi alimentari. Carocci
Binswanger, L. (1921) – Il caso di Ellen West. Einaudi
Recalcati, M. (2007) – L’ultima cena. Bruno Mondadori
Selvini Palazzoli, M. (1998) – L’anoressia mentale. Feltrinelli
Stanghellini, G.; Mancini, M. (2019) – Mondi psicopatologici. Edra

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